La lettura a video, l’abbandono della carta stampata, la crisi dell’editoria classica e dei quotidiani: i problemi delle tipografie non descrivono una semplice crisi di settore, ma ben più allarmante cambio di paradigma. E dai cambi di paradigma non si può tornare indietro. Bisogna dunque applicare nuove strategie industriali, composte di automazione, organizzazione lean, aggiornamento tecnologico (e in particolare informatico), nuove polarizzazioni di un business assai più sensibile alla diversificazione della comunicazione.

Nel Regno Unito

La contemporaneità presenta un dato: la crisi del prodotto tipografico è una crisi del committente. Da una parte, i budget sono stati dirottati in gran parte sull’online; dall’altra, i gruppi editoriali stessi traggono la maggior parte dei loro fatturati da asset sempre meno legati alla carta. La sopravvivenza del settore, la soluzione ai problemi delle tipografie passa dalla comprensione dei numeri: il giro d’affari, nei Paesi più sviluppati, si è ridotto di circa il 40%, e questo non riguarda solo l’Italia. In Gran Bretagna si è passati dai 15 miliardi di sterline di fatturato complessivo ai circa 10 attuali, con una ovvia ripercussione sull’occupazione: nel 2001 l’industria della stampa britannica aveva circa 200.000 dipendenti, nel 2018 meno di 120.000.

Roy Kingston, CEO di Wyndeham, una delle maggiori tipografie del Regno Unito: Wyndeham è, per inquadrare le dimensioni, la tipografia che stampa “The Economist” e la rivista “Men’s Health”. Lo stabilimento impiegava 350 persone, ma oggigiorno stampare non richiede quasi personale ed ha comportato una riduzione di lavoratori ad appena 114 tecnici, pur con una mole di lavoro più che raddoppiata. Negli anni ’90 si avevano tre rotative e buttavano fuori 20.000 copie a 32 pagine in un’ora; ora fanno 60.000 copie di uguale spessore con appena due macchine.

Il vantaggio degli italiani

La salute dei player, negli altri Paesi europei, non è migliore: anzi, le tipografie italiane sarebbero perfino avvantaggiate dall’ottima qualità del prodotto unita a un costo del lavoro sensibilmente minore, se parametrato sul resto del mercato europeo; ma il cambio di paradigma cui accennavamo sopra ha spostato l’asse ancora più a est, con la Cina che nel 2014 è divenuta il più grande mercato al mondo della stampa, superando gli USA (fonte: Smithers Pira), mentre l’India è entrata nella top 5 dei mercati mondiali quest’anno, perché stampare in Asia costa straordinariamente di meno. Insomma, quanto perduto in termini di fetta di mercato in gran parte non verrà recuperato.

Robert G. Picard, professore a Harvard e Oxford. Robert G. Picard, già professore di economia dei media presso l’Università di Oxford e presso l’Università di Harvard, aveva sentenziato: “Gli italiani offrono una qualità molto elevata, ma anche un prezzo più basso per via del minore costo del lavoro. E la Germania ed i paesi scandinavi hanno un’industria della stampa molto efficiente, che elimina alcuni dei problemi di prezzo. Quindi, a parte le cose che sono urgenti, come le riviste, che devono essere fatte all’interno della regione, il miglior affare si potrebbe trovare al di fuori dei propri confini”.

Del resto, la stessa tecnologia che ha aumentato i problemi delle tipografie dà le soluzioni per uscirne. Il primo punto su cui convergere è un aggiornamento che molti industriali tipografici hanno già affrontato, quelle stampanti laser industriali che permettono di rendere rapida e conveniente una produzione di piccoli lotti, altamente personalizzati. Macchine inoltre estremamente precise e profondamente automatizzate, pronte per la stampa offset e che lavorano mediante lastre litografiche create da file digitali. Ma se la crisi, come dicevamo in apertura, è una crisi di committenza, aprirsi a nuovi ambiti potrà dare respiro alle imprese del settore.

Fonte: DCBPaper

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